Il problema competitività della Serie A

Lo stato dell’arte

di Kantor

[mks_dropcap style=”square” size=”52″ bg_color=”#F2F2F2″ txt_color=”#000000″]D[/mks_dropcap]opo quattro giornate di campionato la situazione è già chiara; e assomiglia terribilmente a quella dell’anno scorso. Appare evidente che ci sono delle squadre, in particolare le neopromosse, che non sono assolutamente attrezzate per rimanere in serie A e questo rischia di ridurre la lotta per la non retrocedere a 4/5 squadre già a Dicembre. Senza contare l’effetto imbarazzante di partite come quelle che Benevento e Verona hanno disputato nell’ultimo weekend, la situazione può avere risvolti più pericolosi dal punto di vista sportivo, poiché lascia una decina di squadre di Serie A senza alcun obiettivo sportivo troppo presto nella stagione.  Gli effetti deleteri di questa situazione si sono già visti l’anno scorso e per me sono solo destinati a peggiorare. Ci sono state squadre che hanno smesso di giocare seriamente a Gennaio o, peggio ancora, che negli ultimi mesi si sono “scelte” le avversarie contro cui giocare seriamente. Che questa scelta avvenga per motivi di campanilismo, di ostilità tra tifoserie o in seguito ad altri incentivi meno leciti (che conoscendo il livello di moralità delle componenti del calcio italiano sono tutt’altro che da escludere, specie in prospettiva) è alla fine la cosa meno rilevante. L’effetto sicuro è la messa a rischio della regolarità del campionato, oltre al danno di immagine derivante da partite che già l’anno scorso hanno ampiamente superato il limite del ridicolo.  In questa serie di interventi cercheremo di spiegare come si sia giunti a questo punto e quali siano le possibili soluzioni.

Le motivazioni razionali

di Francesco Andrianopoli

[mks_dropcap style=”square” size=”52″ bg_color=”#F2F2F2″ txt_color=”#000000″]I[/mks_dropcap]l calcio italiano ha vissuto per decenni al di sopra delle proprie possibilità, a tutti i livelli, non solo nella lotta per le posizioni nobili, ma anche in quella per non retrocedere: le squadre “piccole” spendevano cifre ben superiori ai propri ricavi, per cartellini e ingaggi di giocatori “di categoria”, che permettessero loro di giocare ad armi pari con le squadre di medio lignaggio, e quindi aumentare le proprie probabilità di salvezza. Quando però l’obiettivo non veniva raggiunto, il macigno rappresentato dai debiti (passati e futuri) contratti per combattere al di sopra del proprio peso finiva per schiacciare le società: dopo la retrocessione, finivano infatti quasi inevitabilmente per retrocedere o smobilitare, sprofondando nelle categorie inferiori. Da qualche anno questo trend sembra essersi interrotto, e molte società sembrano aver interiorizzato il concetto che mantenere la stabilità economica e finanziaria a lungo termine è l’obiettivo primario, e non può essere sacrificato per cercare di restare in A un anno in più. Nella massima serie troviamo ormai stabilmente 5-6 squadre che hanno volumi di fatturato e di spesa più vicini a quelli della Serie B che alle “avversarie dirette” di media classifica in A (come ad esempio Bologna, Genoa, Udinese): di fatto, queste 5-6 squadre hanno sacrificato la competitività per la sostenibilità, accettando il rischio di non riuscire a competere nella massima serie e quindi di dover fare stagioni “in ascensore”, passando di anno in anno da una bassa Serie A a una alta Serie B, e viceversa, senza farne un dramma. E’ una scelta che può non piacere, ma è certamente virtuosa  e rispettabile: non si può imputare il problema di competitività della Serie A a chi adotta una politica sana e di crescita lenta e graduale, senza “ricchi scemi” e senza spese pazze, e non si può pretendere da una società di mettere a rischio la sua stessa sopravvivenza nel nome di un prodotto più godibile; se si vuole cambiare questa situazione, bisogna guardare altrove.

Una possibile soluzione

di Davide Terruzzi

[mks_dropcap style=”square” size=”52″ bg_color=”#F2F2F2″ txt_color=”#000000″]N[/mks_dropcap]on mandare squadre in vacanza già a febbraio. Questo dovrebbe essere uno degli obiettivi di chi si occupa delle sorti del nostro campionato maggiore. Troppe volte, ormai è una sicurezza, alcune squadre raggiungono il proprio obiettivo stagionale, la salvezza, con largo anticipo: il divario tra le ultime 4-5 delle classifica e il corpaccione molle della nostra Serie A è troppo elevato per fatturato, competitività e qualità delle rose. Cosa si può fare? Forse una possibile soluzione arriva dalla Serie B, una lega che è stata protagonista di innovazioni per migliorare la visibilità e la qualità del prodotto, che ha mutuato dai campionati minori il meccanismo dei play off e play out. Se è impossibile immaginare una post season per assegnare lo scudetto (la stagione sarebbe interminabile), mentre teoricamente si può ipotizzare una poule per designare la quarta che andrà in Champions, si può pensare a rivitalizzare la lotta salvezza. Ci possono essere diverse opzioni, senza entrare nei tecnicismi, per tenere aperta la questione retrocessione fino all’ultimo, evitando così che alcune squadre smettano di giocare una volta raggiunto il proprio obiettivo. Poco può essere fatto nell’immediato: il problema non è il dislivello tra il fatturato della Juventus e quello della Fiorentina, ma il divario esistente tra quello di Genoa e Spal. Cosa si può fare?  Sicuramente distribuire in maniera più equa i diritti tv aiuterebbe, ma al momento è soluzione politicamente non praticabile, così come l’introduzione di un paracadute per chi non accede alle Coppe, ma l’unica opzione attualmente possibile è quella di un buon lavoro da parte delle società. Concludo con l’unica soluzione che troncherebbe qualsiasi discorso e permetterebbe in automatico l’aumento della competitività e della qualità della nostra Serie A: la riduzione delle squadre professionistiche, con un campionato maggiore che ritorni a essere almeno a 18 squadre. Al momento, però, come spiegato da Antonio sotto, anche questa alternativa resta un’utopia.

Le resistenze politiche

di Antonio Corsa

[mks_dropcap style=”square” size=”52″ bg_color=”#F2F2F2″ txt_color=”#000000″]N[/mks_dropcap]on più tardi del 21 agosto scorso, il presidente della FIGC Carlo Tavecchio, in un’intervista radiofonica rilasciata a Radio Anch’io Lo Sport, ha ammesso che la riduzione della Serie A a 18 squadre (e della B a 18) sarebbe l’ideale per permettere una più remunerativa ridistribuzione dei diritti televisivi e una gestione migliore del calendario. Sempre Tavecchio, ha inoltre aperto all’ipotesi dei playout che sarebbe a mio avviso un ottimo passo verso la competitività, costringendo più squadre – quelle della parte destra – a restare sempre sul pezzo fino all’ultima giornata. Bene, direte voi: siamo tutti d’accordo, lo vuole Tavecchio, è oggettivamente una cosa che aiuterebbe, facciamolo! Beh… è un po’ più complicato di così. Lo lascio spiegare allo stesso presidente FIGC, con un suo virgolettato: «Gli organismi decisionali sono in capo alle assemblee (la Lega Serie A per la A) e non è facile che le ultime dieci squadre della classifica di A accettino di perdere due posti». Ad essere ancora più brutali, è difficile proprio che decidano qualcosa, essendo al momento entrambe a rischio commissariamento e senza una governance. Alla fine, insomma, l’unico modo per imporre questo tipo di iniziative sarebbe d’arbitrio. Ma, facendo ciò, sarebbe poi la governance della FIGC ad essere costretta a fare la conta dei numeri per non rischiare di essere messa in minoranza. Insomma, è un meccanismo perfetto per bloccare ogni tipo di innovazione e lasciare tutto così e finora ha innovato più il Parlamento con le leggi e la magistratura ordinaria con le sentenze delle assemblee.

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