Paulo Sousa, mio idolo di gioventù

ARTICOLO ORIGINARIAMENTE PUBBLICATO IL 25 APRILE 2015.

di Antonio Corsa


Tributo al mio idolo d’infanzia. La sua storia dalla bellissima Viseu alla conquista dell’Europa. Per ben due volte di fila.


Viseu è una piccola cittadina con meno di 100.000 abitanti a metà strada tra l’oceano Atlantico ed il confine spagnolo, situato in quella che un tempo era nota come la provincia di Beira Alta, una zona ricca di castelli, fiumi e immense vallate. Bella, tranquilla, pulita, efficiente: secondo recenti studi, la “città più bella da vivere” del Portogallo. Non è però mai stata una città di calcio non avendo squadre professionistiche da tifare, né uno stadio che possa definirsi tale, nè una scuola calcio giovanile particolarmente rinomata. È famosa per altro: per la sua storica scuola di pittura e soprattutto per la gastronomia e i vini rossi (il Dão in particolare, orgoglio locale).

Ciò nonostante, dal 30 agosto 1970, è inevitabilmente finita anche nella mappa del calcio internazionale per aver dato i natali a Paulo Manuel Carvalho Sousa, che lì è nato e che lì ha sviluppato la sua passione per questo sport. Si tratta senza dubbio del mio calciatore preferito degli anni ’90, quello che più di tutti riuscì a colpirmi del meraviglioso primo ciclo di Lippi e che porto ancora oggi nel cuore. È a lui, quindi, che ho deciso di dedicare questo primo tributo di (spero) tanti sui miei calciatori preferiti per cercare di raccontare il ragazzo, l’uomo e il giocatore col suo percorso di crescita dai campetti di periferia fino al Borussia Dortmund dove si laureò per la seconda volta campione d’Europa e campione del mondo di club.

Partirei dall’inizio, dalla sua infanzia, dalla famiglia. Dalla sua Viseu, appunto. Sousa è il primogenito nato dal matrimonio tra papà Delfim Silva e mamma Maria Magdalena. Lui era un meccanico che aggiustava moto, lei una sarta che confezionava vestiti. Oggi, entrambi hanno una bella casa e non lavorano più, ma 40-50 anni fa per loro era dura: uscivano di casa alle 5 del mattino e vi ritornavano solamente a sera inoltrata lasciando i due bambini (Paulo ha un fratello di un anno più piccolo) da soli o con i nonni per la maggior parte della giornata.

Vivevano in un piccolo appartamento (oggi in vendita) lungo corso Madre Rita de Jesus, nel quartiere di Jugueiros, zona sud della città. A 5 minuti di auto, nel vicino sobborgo di Repeses, c’era il campo della scuola calcio locale, l’Estadio Montenegro Machado, circondato da mura di pietre bianche a delimitarne il confine con un grande bosco e raggiungibile da una strada ancora oggi asfaltata a fatica. È lì che Paulo Sousa ha iniziato a giocare a pallone dopo aver provato in tenera età l’atletica leggera e il basket. È lì che, ancora oggi, negli spogliatoi c’è il suo nome, indelebile e indimenticato.

Il nome di Sousa negli spogliatoi del Repeses


Amava allenarsi, era praticamente ossessivo. A fine seduta, restava a calciare il pallone in porta fino all’allenamento dei più grandi. Poi, quando faceva buio, continuava a giocare nel garage del padre dove poteva palleggiare e passarsi la palla contro il muro fino all’ora di cena (parentesi: lavorava sul controllo di palla e sul calcio al pallone, già da piccolo: intelligenza e concretezza superiori). Papà e mamma in linea di massima lo lasciavano fare, ricordandogli però ogni giorno come il solo calcio non portasse il pane a tavola. Certo, oggi – con il senno di poi – viene da sorridere, ma allora era vietato scherzare su educazione scolastica e religiosa. Anche religiosa, sì. La domenica, infatti, guai a non presentarsi vestito a puntino alla catedral per la messa e il catechismo o avrebbe fatto arrabbiare la nonna e, credetemi, si poteva scherzare su tutto ma guai a fare arrabbiare la nonna! Scuola e fede prima di tutto; il calcio solo a tempo perso. Questo è il Paulo Sousa ragazzino, cresciuto col mito della maestra Rosa delle elementari, che voleva fare l’insegnante a sua volta e che, però, era così magneticamente attratto da quel campo di calcio che ancora oggi, se chiedete a Viseu alla gente che lo conosceva, vi racconteranno divertiti di quando sfidasse la sorte calandosi dalla finestra per andare agli allenamenti, di nascosto. La catedral vedeva tutto dall’alto ma – probabilmente – sorrideva anche lei.

Paulo aveva infatti un talento naturale che non si può che considerare un dono divino. Era nato per questo sport. Se ne accorse immediatamente Carlos Soares, per tutti Coach Carlos, l’allenatore del Clube de Futebol Os Repesense, la società per la quale da ragazzino militò dai 10 ai 14 anni. Lo metteva a giocare con quelli di due o tre anni più grandi, per rendere le partitelle più equilibrate. Era due spanne avanti a tutti tecnicamente, ma lo era anche e soprattutto mentalmente: di poche parole, critico verso se stesso, metodico, e con un odio assoluto per la sconfitta. Odiava perdere, a tutti i livelli, proprio non lo sopportava. Il piccolo fenomeno rischiava ogni tanto, però, di non essere altrettanto brillante a scuola.

A proposito di scappatelle, c’è un aneddoto che Coach Carlos ama ricordare tra le lacrime di commozione: un giorno, Paulo non si presentò a lezione, a scuola, per prendere parte ad un suo allenamento. L’insegnante Rosa – come detto figura chiave della sua gioventù – arrabbiatasi per l’assenza, si presentò dai genitori e ne chiese conto al padre il quale, terrorizzato dall’idea che il figlio potesse non riuscire a superare l’esame finale del ginnasio (per essere ammessi alle scuole secondarie), se la segnò al dito e giurò che da quel giorno non lo avrebbe più mandato ad allenarsi, per punizione. Coach Carlos, però, a sua volta insegnante, si presentò dal signor Delfim e gli raccontò di aver dovuto accompagnare il ragazzo al pronto soccorso perchè vittima di un piccolo incidente e che fu quello in realtà il motivo per cui saltò la scuola. Era una bugia, ovviamente, ma di quelle che si dicono a fin di bene e che “probabilmente gli salvò la carriera”. Per la cronaca, Sousa poi quell’esame di fine anno lo passò ugualmente e anche bene.

Coach Carlos


A nemmeno 15 anni, ad ogni modo, era già uno dei calciatori più promettenti della regione e su di lui erano già in tanti a scommettere. Il suo destino era quello. Dopo aver dominato in lungo e in largo nel campionato di categoria (zona nord) ed aver impressionato contro le rappresentative più prestigiose di Porto e Boavista, un giorno si presentarono alcuni emissari del Benfica. Avevano ricevuto buone referenze su un altro ragazzino, tale Rebelo, uno che oggi ha intestata a suo nome una clinica medica specializzata in urologia (e quindi fate 2+2…). Coach Carlos, però, vedendoci lungo, li convinse a cambiare obiettivo e a scegliere lui e, dopo la segnalazione giunta a Peres Bandeira, già Commissario Tecnico delle Nazionali giovanili e storico osservatore del Benfica, venne acquistato dietro pagamento di 80.000 pesetas e di un’amichevole che a Viseu stanno ancora aspettando di disputare. Due giorni dopo, si presentarono anche gli osservatori dello Sporting, la squadra da sempre nel cuore della famiglia Sousa, ma invano poichè era già tutto nero su bianco. Fu Benfica.


Il signor Bandeira si mise in contatto con mio padre e l’accordo venne raggiunto in pochi giorni. Anche se tifavo Sporting ed il trasloco mi allontanava dai miei e scombussolava radicalmente i miei progetti, non potevo permettermi il lusso di rifiutare.


Per Paulo, Benfica significava innanzitutto Lisbona, la capitale. Certo, significava anche giocare per uno dei club più gloriosi del Portogallo e poteva essere la svolta della sua vita, la coronazione di un sogno, la gratificazione e l’opportunità perfetta per prendere il volo. Si rivelò però, almeno inizialmente, un incubo. Ciò che non trovate nelle bio di Wikipedia è infatti l’avventura, spesso traumatica, cui questi ragazzini sono costretti: vivere da soli lontani dai genitori e in una città – nel caso di Sousa – totalmente diversa come ritmi, dimensioni e stress dalla sua Viseu e distante quasi 300 km. Fu talmente dura che ad un certo punto rinunciò, chiuse i bagagli e si recò alla stazione di Santa Apolonia convintosi a tornare definitivamente a casa, a gettare la spugna. Sarebbe stata nuovamente la fine della sua carriera calcistica. Lo fermò all’ultimo istante Tamagnini Manuel Gomes Baptista, al secolo Nenè, “O Assassino Silencioso”, goleador straordinario del Benfica degli anni ’70 nonchè allenatore e responsabile del settore giovanile. “Tutto quello che sono come calciatore e non solo lo devo a lui”, ripete in ogni intervista Sousa. Anche per questo. Dopo quell’episodio, crebbe come uomo e come calciatore, si fece forza, maturò.

Nelle giovanili, giocò prevalentemente come esterno d’attacco (soprattutto destro) ma anche come prima e seconda punta. È proprio da attaccante che venne convocato nel 1989 (a nemmeno 19 anni) da Carlos Queiroz, o profesor, per partecipare ai Mondiali U-20 in Arabia con la nazionale portoghese. Di quella selezione facevano parte diversi compagni di squadra: assieme a Sousa furono convocati anche Bizarro, Brassard, Resende, Xavier Clara, Abel Silva, Paulo Madeira (suo compagno di stanza a Lisbona) e Valido, più João Vieira Pinto e Amaral controllati dai “rossi”. Paulo giocò solo due partite (di cui una a qualificazione alla seconda fase già conquistata) e fu il quarto giocatore meno utilizzato dell’intera rappresentativa, ma l’esperienza gli permise di crescere e di prendere per la prima volta contatto con il calcio che conta, quello internazionale. Il Portogallo vinse quella manifestazione e pure la successiva (con Figo e Rui Costa) e nacque allora quella che è ancora oggi ricordata come “la generazione d’oro” del calcio lusitano.

Sousa al Benfica


Dall’estate successiva, con l’arrivo a Lisbona di Sven-Göran Eriksson, venne stabilmente aggregato alla prima squadra per imparare dai veterani, soprattutto da Ricardo Gomes e capitan Veloso, i due giocatori con i quali legò di più. Iniziò per lui un lungo tirocinio sia tecnico che atletico (mise massa muscolare) che gli permise di trasformarsi da laterale a interno di centrocampo, ruolo nel quale venne definitivamente lanciato durante il ritiro estivo del 1990, quando molti nazionali del Benfica tornarono tardi dalle ferie (era l’anno dei Mondiali) e lui venne provato proprio come regista giocando talmente bene da non essere più spostato da lì. Fu un periodo d’oro per Sousa che conquistò a 20 anni una maglia di titolare, un titolo nazionale (con 36 presenze su 38) e, nel 1991, a soli 21 anni, dopo 9 presenze con la U-21, arrivò persino la prima convocazione con la Nazionale maggiore per un’amichevole con la Spagna. Successe tutto rapidamente, senza respiro, con un’escalation incredibile che gli valse le prime pagine e la stima dei suoi tifosi.

È impossibile descrivere per intero la sua esperienza professionistica, ovviamente. C’è però una partita che merita di essere raccontata perchè più di tutte contribuì a consacrarlo e a renderlo un vero beniamino per i tifosi del Benfica. Era il 10 aprile della stagione 1992/93 (la seconda da titolare). Gli Encarnados, in vantaggio 3-1 contro il Boavista, avevano già effettuato tutte e tre le sostituzioni. Successe così che al 72′ il portiere Neno venne espulso per un fallo da ultimo uomo (più rigore) e qualcuno avrebbe dovuto prenderne il posto. Gli uomini designati teoricamente sarebbero dovuti essere Paulo Futre e Mozer, due che durante gli allenamenti si dilettavano a parare. Togliere Futre avrebbe significato però rinunciare a qualsiasi possibilità di contropiede per alleggerire la pressione sulla difesa e Mozer serviva come il pane per fare legna in mezzo al campo. Toccò quindi a Sousa che, indossati i guantoni e la maglia di Neto al contrario, si ritrovò per la prima volta in vita sua a fare il portiere e, peggio, a dover addirittura parere un rigore, a freddo. Restò ovviamente di sasso mentre il pallone calciato da Artur finiva di giustezza nel sette, ma successivamente – con un tuffo da portiere navigato – evitò il 3-3 salvando la vittoria e guadagnandosi le prime pagine di tutti i giornali e il cuore dei tifosi.

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Sono però altre due partite disputate con la maglia del Benfica che lo fecero entrare nei radar della Juventus: quelle del 4 e 17 marzo 1993, andata e ritorno dei quarti di Coppa UEFA proprio contro i bianconeri. Era la Juve di Trapattoni, quella dei due Baggio, di Moeller, di Vialli con i capelli e con Marocchi, Galia e Conte a centrocampo. Una Juve costruita piuttosto male, che viveva di individualità e cui mancava proprio un regista di qualità. Sousa, appunto. Fu notato dalla Juve che offrì 750.000 pesetas per portarlo a Torino, ma il Benfica rifiutò. Era incedibile, l’idolo dei tifosi assieme a Rui Costa, l’anima della squadra. Eppure, avete mai googlato il suo nome e letto i commenti dei tifosi del Benfica sotto ogni sua intervista o articolo a lui dedicato? È un alternarsi di mercenário, vedeta, traidor, marreta, vergonhoso, grande jogador, vendido e così via. Rispetto per il giocatore, universalmente riconosciuto come un campione, ma odio profondo verso l’uomo. Il motivo? L’addio. Anzi, il modo in cui lasciò. Avete presente Conte per alcuni tifosi juventini? Fate per dieci. Durante l’estate del 1993, ribattezzata dai giornalisti Verão Quente (estate bollente), col Benfica in difficoltà economiche piuttosto importanti, Sousa – il 19 di giugno – chiese infatti la rescissione unilaterale del contratto mettendo in mora la società e passando assieme a Pacheco agli odiati rivali dello Sporting Lisbona (la società per la quale, come detto, faceva il tifo da bambino ma – non incidentalmente – “nemica” per antonomasia del Benfica).

Mettiamola così: i suoi ex tifosi non la presero benissimo, tanto che fino alla mezzanotte del primo luglio fu di fatto costretto a restare in un luogo segreto, per evitare guai. Sousa Cintra, il presidente dei Leoni, come un avvoltoio che sorvola un animale ferito a morte pronto a mangiarne la carcassa, cercò di fare bottino pieno anche con Paulo Futre e Rui Costa, che però non se la sentirono. Si creò perciò da quel momento una spaccatura netta e insanabile tra chi restò nonostante le difficoltà (ed è ancora oggi venerato) e chi invece abbandonò la barca che affondava per accasarsi altrove. “Preferisti i soldi alla riconoscenza”, gli rinfacciano ancora oggi i tifosi del Benfica. Sousa, però, ha sempre negato fosse quello il problema, avendo più volte affermato come il presidente del Benfica, ad un certo punto, gli propose addirittura un contratto in bianco pur di convincerlo a restare. “Non fu per soldi: come professionista e calciatore, sentivo che lo Sporting avesse di più da darmi in quel momento e in futuro”. Ovviamente, del tutto inutile: non glielo perdoneranno mai e non lo perdonarono nemmeno quando, a fine carriera, si sparse voce di un interessamento proprio del Benfica per riportarlo nel club che l’aveva lanciato: fu un plebiscito di no. Vedeta. Marchiato a vita.

Sousa con lo Sporting Lisbona, la squadra del cuore


La stagione con lo Sporting, per tornare al nostro racconto, andò male. Anzi, malissimo se consideriamo che il titolo lo vinse proprio il Benfica vendicandosi nel più dolce dei modi. Troppe pressioni, troppe polemiche, troppi che etichettarono i biancoverdi come “una delle squadre più forti di sempre”, troppo presto. C’erano Sousa, Figo, Peixe, Capucho e Balakov. Un dream team. Successe però quello che succede spesso nello sport in questi casi: non ressero la pressione. Dopo sei mesi, a pagare fu l’allenatore Bobby Robson, sostituito da Carlos Queiroz. Non fu sufficiente però perchè, anche con lui, lo Sporting non riuscì a decollare e giunse all’epilogo perdendo per 3-6 un leggendario (per il Benfica) derby che di fatto sancì la vittoria del titolo. Nota di colore a margine: segnò una tripletta João Pinto, uno di quelli che rescissero il contratto ma poi rifirmarono con aumento non abbandonando il club delle Aquile. Due giorni dopo, il 16 maggio, la Juventus annunciò ufficialmente l’acquisto di Paulo Sousa e Didier Deschamps bruciando la concorrenza della Roma.


Ho individuato i fattori di cui avevo bisogno per essere uno dei migliori. Prima di tutto, andare alla Juventus, una squadra importante, con giocatori importanti che giocava in un campionato prestigioso in cui lottava sempre per un posto in vetta. Mi fece crescere rapidamente, essere competitivo.


A Torino ci arrivò tra mille polemiche. Passò l’estate del 1994 nelle aule dei tribunali per la vertenza tra il Benfica e lo Sporting (il suo svincolo unilaterale fu giudicato regolare, ma lo Sporting fu costretto a versare parte dell’incasso della cessione ai bianconeri al Benfica) e, successivamente, anche in Italia scoppiò una polemica feroce poichè Sensi accusò senza giri di parole il suo ex DG Luciano Moggi di avergli scippato Sousa ed esserselo portato alla Juventus, il suo nuovo club. I bianconeri lo pagarono 8 miliardi di lire e gli fecero firmare un triennale da 1 miliardo l’anno, inferiore all’offerta economica della Roma, ma forte del maggiore prestigio della società e della possibilità di giocare con campioni come il Pallone d’Oro Roberto Baggio (“il giocatore più forte col quale ho giocato in carriera”). Tra una vertenza e una trattativa di mercato, non riuscì ad allenarsi con la tranquillità che avrebbe voluto. Una volta arrivato in ritiro, poi, l’impatto con gli allenamenti del sergente Ventrone fu devastante. Aggiungete a tutto questo il fatto che il centrocampo che originariamente sarebbe dovuto essere quello titolare, ovvero Deschamps-Sousa-Conte (tre centrocampisti “veri”), non scese mai contemporaneamente in campo, che i problemi agli adduttori che da sempre accompagnavano i suoi inizi di stagione si ripresentarono puntualissimi e che a Bari subì un infortunio che lo frenò parecchio e l’inizio dell’esperienza bianconera si rivelò un mezzo flop.


Il mio gioco è fatto di parecchie cose: sono molto portato al recupero del pallone e al rilancio immediato. Finché non sono stato nel pieno possesso dei miei mezzi atletici, ho dovuto limitare la mia azione. Appena ho recuperato la piena condizione, ho cominciato a giocare alla mia maniera, cercando di dare alla squadra quello che il tecnico si aspetta da me.


Fino a novembre, almeno, quando iniziò a cambiare marcia e si caricò centrocampo e squadra sulle spalle. Come andò di lì alla fine della stagione non ve lo sto nemmeno a raccontare: andò che giocare “come Paulo Sousa il primo anno alla Juve” dovrebbe essere scritto sotto ogni trofeo o riconoscimento personale assegnato da allora. Non mi dilungo eccessivamente sia perchè credo sia chiaro a tutti l’impatto che ebbe il calciatore nel nostro calcio, sia perchè ho una sorpresa per voi nel finale. Vi mostro solo una clip di pochi secondi, la circostanza che me ne fece innamorare definitivamente: avete presente il gol di Vialli del 2-2 contro la Fiorentina (poi segnerà Del Piero al volo)? C’è un giocatore che, dopo aver festeggiato, immediatamente corre verso i compagni e grida loro di tornare a centrocampo che c’è tempo per farne un altro. È proprio Sousa. È quello spirito che cambiò la Juve, unito ai suoi piedi e alle sue qualità tattiche. Era a Torino per vincere, in missione. E ci riuscì trascinando la Juventus alla vittoria dopo 9 anni di digiuno.

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Due mesi prima del termine della stagione, ad ogni modo, s’infortunò ad un ginocchio. Fu l’inizio della fine. Sousa giocò ugualmente anche se, in estate, sarebbe servita un’operazione e un lungo stop.


Nessuno mi ha mai obbligato a scendere in campo, ma qualcuno mi ripeteva: “Per favore Paulo, anche con una gamba sola, vedi se puoi darci una mano”.


A settembre però lo aspettava un’annata importantissima con la Champions League da disputare e le qualificazioni agli Europei con il suo Portogallo. Il giocatore e lo staff tecnico bianconero decisero così di rivedersi dopo le ferie. Nonostante uno stop assoluto di due mesi e mezzo consigliatogli (impostogli) dai medici con ripresa delle attività solo ad ottobre inoltrato, Sousa e Lippi – egoisticamente – si convinsero a provare a disputare la stagione per intero. Il dolore era fortissimo e per stare in piedi servivano infiltrazioni di cortisone continue. Troppe. Ma c’era da vivere il momento e Sousa lo visse per intero: finchè la squadra è forte e c’è possibilità di vincere, si gioca. Al futuro si penserà poi. Alla fine, però, il ginocchio era completamente pieno di cristalli, virtualmente distrutto. Ciò nonostante, ricoperto di fasciature che pareva in calzamaglie, il suo contributo aiutò la Juve a vincere anche la Champions League, la sua prima personale, la prima “vera” della Juventus, con tanto di gol in semifinale contro il Nantes. La sua missione era compiuta: era campione d’Europa. Lui, il ragazzino di Viseu che voleva fare il maestro delle elementari era riuscito ad imporsi nel più prestigioso campionato del mondo divenendo una star internazionale.


La prima Champions League, stupenda.


Lo avrete ormai capito però, arrivati a questo punto, che Sousa due stagioni tranquille di fila non le passò e non le passerà per tutta la carriera, inclusa quella da allenatore. Arrivata l’estate, lo aspettava l’Europeo dall’8 al 30 giugno: “Football Comes Home”, il calcio torna a casa, dicevano gli inglesi. E il Portogallo a casa ci ritornò dopo i quarti, sconfitto 1-0 dalla Repubblica Ceca da un gol di sua santità Karel Poborsky (sempre sia lodato).

Piccola parentesi extra-campo, ma fondamentale. Il 15 dicembre 1995, 6 mesi prima, la Corte di Giustizia della Comunità Europea emise una sentenza che fece storia e cambiò per sempre il calcio: la sentenza Bosman. Stabilì che, in base al Trattato di Roma, ogni calciatore dovesse essere ritenuto assimilabile ad un qualsiasi altro lavoratore comunitario e che, pertanto, avesse diritto alla libera circolazione nei paesi europei alla fine del contratto che lo legava ad una società di calcio. Dall’estate del 1996, tradotto in soldoni, ci si poteva svincolare gratuitamente e accasarsi altrove, senza cartellini. La Juventus aveva due calciatori importanti in scadenza: Gianluca Vialli nel 1996 e appunto Paulo Sousa nel 1997. Il primo lasciò la Juve per andare in Inghilterra, al Chelsea; il secondo venne messo sul mercato. Forse pochi lo sanno, ma Vialli era il miglior amico di Sousa a Torino: i due dividevano la stanza assieme durante ritiro e trasferte ed erano molto legati, nonostante il carattere così diverso. Si parlarono sicuramente, a lungo. Entrambi, in quel momento, dovevano sentirsi piuttosto amareggiati dal cinismo bianconero che pareva già aver programmato la loro sostituzione, senza mostrare riconoscenza alcuna. Sousa si convinse così a intraprendere lo stesso percorso dell’amico e a liberarsi gratuitamente 12 mesi dopo. Poi, però, mitigò la propria rabbia e si è affidò a Giovanni Branchini per valutare eventuali offerte prima della scadenza, vista la pressione insistente della Juventus. Mentre ancora era in in Inghilterra per gli Europei, la Juve lo cedette al Borussia Dortmund per 10 miliardi. I tedeschi avevano appena perso per infortunio Steffen Freund (6 mesi) e arrivarono ad offrire 1,7 miliardi contro il miliardo bianconero. Branchini lo convinse: inutile fare la guerra a Moggi e restare dove non ti vogliono più. Accettò.

Paulo Sousa contro Edgar Davids


Inutile sottolineare come si sentì il giocatore dopo due anni (specie il secondo) di sacrifici, infiltrazioni, gioie ma anche dolori: come un abito vecchio buttato via. Se la segnò, sì. Anche se non lo ammette perchè è un signore, ma se la segnò. Si operò finalmente a settembre, a Parigi, e programmò il lento recupero con Mariano Barreto, un allenatore personale che – d’accordo con il Dortmund – gli preparò per tutta la stagione degli allenamenti personalizzati per farlo entrare in forma in primavera. Di fatto, esordì solo dopo la pausa invernale. In poco tempo, divenne titolare inamovibile e fulcro assoluto del gioco del Dortmund. Non era male la squadra con Sousa a regime: c’erano tra gli altri anche Möller, Kohler, Chapuisat e Kalle Riedle. In Champions League, passarono con 13 punti il mini girone assieme all’Atletico Madrid per poi eliminare nel doppio confronto prima l’Auxerre e poi il Manchester United. In finale, programmata in “casa”, a Monaco di Baviera, Sousa incontrò proprio la Juventus, considerata la “bestia nera” europea del Dortmund. Perdevano sempre contro i bianconeri! Non solo: erano considerati gli scarti della Juve. Si consumò così una delle sorprese più grandi nella storia delle finali di Champions: stavolta, a vincere, furono gli scarti. La prestazione di Sousa fu spettacolare, tanto che gli valse il riconoscimento di MVP della finale. I tedeschi schiantarono la superfavorita Juventus e si imposero 3-1 vincendo la loro prima Coppa dalle grandi orecchie. Per Sousa, fu la seconda di fila con due squadre diverse: roba da scenografia hollywoodiana, da film. Poteva esultare, poteva togliersi i sassolini dalle scarpe, sfogarsi, vendicarsi pubblicamente, dedicare la vittoria ai suoi ex dirigenti, al suo ex allenatore.

Ma non lo fece.


Mentre facevo il giro d’onore con la Coppa, sentivo i tifosi della Juventus, tristi per la sconfitta, che nonostante tutto intonavano il mio nome. È il ricordo più bello della gioia sportiva più grande mai provata.


Avevano capito. Lo avevano capito. Lo avevo capito pure io, che di Sousa avevo il poster in camera, che lo veneravo come mai ho venerato altro calciatore dopo di lui, che quella maledetta sera piangevo ma al tempo stesso non riuscivo a trattenere un sorriso quando lo vedevo inquadrato. “Alzala pure, Paulo!”. Hai vinto tu. Eri il mio idolo. SEI il mio idolo. Il mio eroe. E gli eroi vincono.

La seconda Champions League, per noi amarissima


Il calcio per me è tutto in queste due foto di Sousa con la Coppa. È coronare un sogno, ma anche essere tifoso della squadra che perde riuscendo allo stesso tempo a gioire per qualcun altro. È quel mix di emozioni senza le quali, altrimenti, nulla avrebbe senso e questo sport meraviglioso si ridurrebbe a 22 persone che prendono a calci una palla. Sousa mi ha fatto innamorare della Juve due volte: nella vittoria e, 12 mesi dopo, nella sconfitta quando, tra le lacrime di un diciassettenne che non aveva ancora conosciuto una così cocente sconfitta sportiva, da tifoso juventino, capii che essere tifosi è anche accettare tutto questo. È restare juventini, anche se cedono il tuo idolo. È conservare il suo poster in camera, anche se ti pugnala al cuore. È restare tifosi, comunque. Senza rancore: idolo come prima, juventino più di prima.




di Fabio Barcellona


L’esperienza in bianconero di Paulo Sousa e le sue caratteristiche tecnico-tattiche raccontate da Fabio Barcellona.


La stagione 1994/95 è per la Juventus l’inizio di una nuova era. Sia fuori che dentro il campo. La vecchia Juventus, con Trapattoni in panchina e Boniperti sulla scrivania è sostituita da Marcello Lippi in panchina e Moggi-Giraudo-Bettega nei ruoli dirigenziali. In campo, dai tempi di Michel Platini, regista, rifinitore, goleador… tutto insomma, la Juve ha di fatto rinunciato al cosiddetto “regista”. Con “Le Roi” in campo la mancanza di un giocatore capace di dare ordine ed equilibrio al gioco era ampiamente compensata dalla presenza del numero 10 francese. In assenza di Platini, la piccola Juve degli anni successivi fa il primo vero tentativo di trovare un regista alla terza stagione successiva al ritiro di “Le Roi”. Per sicurezza arrivano due giocatori capaci di giocare in mezzo al campo, proteggere la difesa e rilanciare linearmente l’azione: dall’Atalanta viene acquistato Daniele Fortunato, dall’Unione Sovietica arriva Sergej Alejnikov. Il primo verrà presto arretrato in difesa e dura solo due anni, il secondo, in realtà un buon giocatore, viene spedito dopo solo un anno al Lecce. Con l’avvento di Maifredi giunge a Torino il giovane Eugenio Corini; il tecnico ci crede e Corini gioca abbastanza. Ma l’anno dopo il Trap elegge Corini vice Baggio – non ha il fisico per giocare le battaglie a metà campo – e anche questo regista non ha fortuna alla Juve. Nel due anni successivi, Trapattoni rinuncia del tutto ad avere un uomo d’ordine a centrocampo e fa giocare in mezzo al campo il muscolare Dino Baggio.

Nel 1994/95 invece arrivano, tutti assieme, Didier Deschamps dall’Olympique Marsiglia, Paulo Sousa dallo Sporting Lisbona e il giovane Alessio Tacchinardi dall’Atalanta. Il più atteso è il francese, già vincitore di una Coppa Campioni. È un giocatore di estremo dinamismo, un moto perpetuo capace di strappare il pallone dai piedi degli avversari e di proporsi come soluzione comoda e sicura per i passaggi dei compagni di squadra. Si infortuna subito, tant’è che il suo esordio in serie A avviene solo a febbraio. A prendere la squadra per mano è allora proprio Paulo Sousa.

Il portoghese si piazza davanti alla difesa della Juve di Lippi e guida la squadra allo scudetto dopo 8 anni. Gioca generalmente all’interno di un sistema di gioco 4-3-3 molto flessibile, pronto a diventare 4-4-2. I suoi più assidui compagni di reparto sono il tornante Angelo Di Livio e il dinamico Antonio Conte. Davanti giocano Vialli, Ravanelli, Baggio o il giovane Del Piero. Di Livio è pronto ad aprirsi sull’esterno destro per dare ampiezza alla manovra, con una delle tre punte sempre disponibile ad occupare, sull’altra fascia, il lato sinistro del campo (se in campo c’è Del Piero, il lato sinistro dell’attacco bianconero è cosa sua, e da quella zona nascono i tiri alla “Del Piero”). Conte è il centrocampista che gioca in verticale e attacca gli spazi. A dare equilibrio al tutto ci pensa Paulo Sousa. Che si rivela, nelle stagioni juventine, specie la prima, un fuoriclasse del ruolo.

A parte segnare, il portoghese sa fare tutto. È innanzitutto capace come pochi di leggere e prevedere il gioco avversario: non particolarmente veloce come atleta, ha un senso della posizione e una capacità di intuire in anticipo lo sviluppo del gioco e le linee di passaggio degli avversari che gli consentono di eccellere nel recupero del pallone per mezzo dell’intercetto. Accoppiata a tale capacità, c’è una abilità di analogo livello nel recuperare la sfera tramite contrasto. È capace di difendere in maniera eccellente pressando in avanti, ma con altrettanto successo, correndo all’indietro. E fin qui stiamo descrivendo un ottimo mediano di rottura, che gioca più sulla lettura delle giocate altrui che sull’atletismo. Ma quando ha il pallone, Paulo Sousa si tramuta in un purissimo regista di centrocampo per la sua bravura nel gestire i tempi del gioco e nell’orientare la manovra offensiva. La medesima lucidità di pensiero che mostra in fase di non possesso palla, è esibita nelle fasi di transizione offensiva e di puro possesso. Ancora una volta la sua abilità nell’anticipare la lettura delle giocate gli regalano capacità enormi nel tramutare un’azione difensiva in una offensiva, fondendo quasi in un unico gesto tecnico il recupero del pallone e l’inizio della fase di possesso palla. Da buon portoghese, è dotato di una buonissima tecnica individuale e si distingue per il frequente utilizzo dell’esterno destro per giocate sia corte che lunghe. La scuola calcistica di provenienza lo rende naturalmente capace di giocare sul breve ma, in un calcio non ossessionato dal possesso palla, è in grado con estrema efficacia di trovare la giocata lunga verso le punte. È sempre in posizione, decide lui il baricentro della squadra e, in una contesto dove certo non manca la personalità, si afferma da subito come uno dei leader anche emotivi dello spogliatoio. Con lui in campo e Marcello Lippi in panchina la Juve vince il suo primo Scudetto dopo quelli di Trapattoni e, proprio il portoghese, sembra simboleggiare il passaggio a un calcio maggiormente moderno, con la sua interpretazione totale del ruolo di regista, insieme grandissimo geometra, raffinato esecutore tecnico, equilibratore della manovra e recuperatore di palloni.


FONTI:
– Decine di interviste rilasciate a siti e giornali portoghesi.

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