Dov’è finito il tifo dello Stadium?

La nostra casa è diventata molto silenziosa, ed è forse un simbolo dei tempi che cambiano.


Domenica scorsa, prima di essere invasa dai tweet sanremesi, sulla mia timeline è apparso un video che in questi giorni ho rivisto almeno una decina di volte. Le immagini mostrano Neven Subotić – dieci anni nel Borussia Dortmund, ora in forza all’Union Berlin – mentre viene celebrato dai venticinquemila della Südtribüne del Westfalenstadion.

Poche ore prima del tributo a Subotić, al termine della matinée contro la Fiorentina, ero uscito dal settore sud dello Stadium chiedendomi quando la curva della Juventus sarebbe tornata a cantare e se – quasi due anni dopo il suo arrivo – i tifosi avrebbero mai dedicato un coro a Cristiano Ronaldo.

Il confronto tra i decibel del Signal Induna Park e quelli dello Stadium è impietoso quasi quanto quello tra i palmarès dei due club. Ed è molto probabile che alla stragrande maggioranza dei tifosi bianconeri non importi molto del silenzio in cui la Juventus gioca le partite casalinghe e che l’attenzione di (quasi) tutti sia focalizzata sul campo, dove la squadra ha perso solo due delle quaranta partite disputate nelle ultime due stagioni.

Personalmente, però, ho la sensazione che manchi qualcosa al racconto di questi ultimi, straordinari anni di storia juventina. L’assenza del tifo organizzato è solo una parte di questo black-out narrativo. So benissimo che il muro giallo di Dortmund rappresenta un caso più unico che raro nel mondo del tifo organizzato. Ciò che però sta davvero venendo meno è quel senso di comunanza che rende indimenticabile anche il successo più scontato (come un 5 a 0 casalingo contro l’Union Berlin, ad esempio) e che ci ha impedito in questi ultimi anni di godere appieno delle nostre vittorie. Spalti silenziosi, piazze deserte: paradossale per una squadra che ha riscritto i record del calcio italiano.

Sarebbe folle negare l’importanza di una fan base allargata, che va aldilà dei confini cittadini e nazionali. Non avrebbe alcun senso mettere in discussione il mantra del “live ahead”, l’importanza del merchandising globale o le decine di milioni di followers che seguono la squadra sui social. Non è più tempo di lamentarsi dei tifosi occasionali che invece della coreografia tengono un iPad in mano. E forse non c’è più nemmeno da emozionarsi se il social media manager di un top team di Premier League pubblica un post come questo.

Ma è davvero impossibile conciliare gli interessi di una società per azioni con la salvaguardia della “comunità stadio”? Si può continuare a vincere, a coltivare un’immagine globale pur non dimenticando le proprie origini? La risposta ce la dà il Liverpool, campione d’Europa e del mondo in carica, che mentre da un lato può contare su un influencer d’eccezione come LeBron James, sul suo canale YouTube pubblica piccoli capolavori con cui celebra l’importanza della comunità locale e dei suoi membri più giovani o descrive la passione della sua gente in relazione all’avversario più odiato.

La Juventus dovrebbe raccontare meglio la sua storia, che è unica. E potrebbe farlo partendo dalla sua gente, dalla sua città. Per ridare vita allo Stadium (ed evitare che si trasformi in una polveriera quando, inevitabilmente, i risultati non arriveranno) si potrebbero coinvolgere i club, chiedendo di assumere un ruolo più attivo a quelle migliaia di persone che affrontano centinaia di chilometri per sostenere la Juve dal vivo. Si potrebbero ricucire i rapporti con la parte sana del tifo organizzato, tuttora presente in curva. E si dovrebbe parlare di più degli investimenti fatti sul territorio, grazie a cui (è il caso della Continassa) la società ha restituito un intero quartiere ai suoi abitanti. Il legame con la propria gente e la propria tradizione non sono delle zavorre. Sono uno dei pilastri su cui costruire le vittorie del futuro.

Perché vincere è l’unica cosa che conta. Festeggiare tutti assieme, in casa propria, lo renderebbe più bello.

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