Principi di allenamento: il campo e le sue zone

Perché si divide il campo in zone? Quali vantaggi dà a calciatori e allenatore? E cosa c’entra con la Juve di Pirlo?


Origine – di Kantor

La figura che ha messo Davide Terruzzi nel suo articolo e che riproduco qui sotto è la tipica cosa che crea polemiche, spesso senza senso, tra gruppi di fanatici contrapposti. Quello che tenterò di fare non è spiegare come venga usata quella suddivisione del campo; questo non rientra tra le mie competenze. Piuttosto cercherò di far capire le ragioni per cui si è pensato che fosse conveniente dividere il campo in zone e costruire degli esercizi tattici che coinvolgessero quella struttura.

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Prima ragione: il campo è grande. E quando dico grande intendo che è un posto in cui ci si può letteralmente perdere (si parte da circa 6500 mq). Le righe tradizionali furono messe non solo per delimitare zone di interesse, ma anche per fornire ai giocatori dei riferimenti spaziali. Se volete fare un tentativo provate a mettervi al limite di un’area e cercate di percepire la profondità e le distanze nell’area opposta: per noi abituati alla visione schiacciata delle riprese televisive è una impresa quasi impossibile. E sono abbastanza vecchio per ricordarmi di partite degli anni sessanta e settanta in cui a volte alcuni giocatori meno dotati davano la netta sensazione di non sapere più dove fossero.

Seconda ragione: venti giocatori di movimento sono tanti. E la palla è una. E quindi non solo uno deve coordinare i suoi movimenti rispetto a compagni ed avversari, ma anche inserirli un uno spazio fisico abbastanza preciso e ristretto. E tutto questo in modo “istintivo”, perchè non c’è tempo di ragionare.

Terza ragione: il calcio è uno sport multivariato. Detto in soldoni è fatto di componenti diverse tra di loro. Ragioniamo in modo spannometrico. Ovviamente c’è la componente tecnica: un giocatore deve essere in grado di controllare il pallone con i piedi, da fermo e correndo, e quindi deve avere delle doti precise di coordinazione neuromuscolare. Ma deve essere anche in grado di coordinare questi movimenti nello spazio e nel tempo, avendo una visione geometrica complessiva del terreno di gioco. E attenzione, questi due aspetti sono indipendenti: ci può essere chi fa naturalmente la foca col pallone ma non ha la più pallida idea del punto del campo in cui si trova, né dove siano i suoi compagni. Così come esistono persone con una visione spaziale perfetta, ma magari molto deboli negli aspetti di coordinazione. Quando trovi uno che ha naturalmente grande familiarità con la palla e grande visione del campo, allora trovi un Pirlo e ringrazi i tuoi dei.

Quarta ragione: questi aspetti si possono allenare. La parte tecnica viene allenata da tempo immemorabile e con successo; per i “pane e salame” voglio ricordare le interminabili sessioni di palleggio “a muro” a cui venivano costretti i meno dotati. Ma più in generale il concetto dell’allenamento attraverso la ripetizione è un concetto storico nel calcio e in tutti gli altri sport (risale addirittura agli atleti professionisti della grecia classica). Allenare la visione spaziale è ovviamente più complesso perchè non è un gesto ripetuto; i “pane e salame” ricorderanno bene quello che succedeva prima. Se avevi un giocatore che chiaramente era una capra da questo punto di vista lo mettevi all’ala col seguente discorsetto “la vedi la linea laterale? non devi allontanarti più di cinque metri da lei”. Indicazione chiaramente rozza, ma a suo modo funzionava; negli anni ’60 e ’70 ci sono state ali che hanno fatto fortuna usando questo semplice accorgimento spaziale.

E veniamo a noi; la divisione del campo in zone va considerata come una sorta di aiuto visivo ai giocatori per allenare la loro visione spaziale. E’ ben noto che parecchi allenatori si fanno fare le righe del campo di allenamento su misura e costruiscono allenamenti che impongono ai giocatori di giocare (quasi) solo muovendosi all’interno di quella zona (o magari passando da una zona all’altra in modo preordinato). Questo tipo di allenamento crea all’interno della testa del giocatore una serie di risposte automatiche; in altra parole dopo un po’ i giocatori (chi più, chi meno ovviamente, ma tutti meglio di prima) “sapranno” in che zona si trovano anche quando le righe non ci sono più’. Quindi la divisione del campo in zone è in realtà un principio di adattamento cerebrale allo spazio concepito in un certo modo. E permette ai giocatori di crearsi delle risposte “spontanee” alle diverse situazioni di gioco; come diceva un mio vecchio professore, ci vogliono anni di allenamento per diventare spontanei.


Didattica – di Davide Terruzzi

Ha ragione il Prof Kantor: il campo di calcio è grande, molto grande. Quando si è piccoli è addirittura immenso. Qualche anno fa ho rivisto quello dove ho iniziato a giocare: all’epoca, vi parlo della fine degli anni ’80 e inizio anni ’90, le partite erano sempre 11vs11 per qualsiasi categoria (anche per i più piccoli, tra i quali c’ero io), e il campo utilizzato con le dimensioni regolare. Il risultato era quello di sentirsi dentro una puntata di Holly e Benji; vedendo quel terreno almeno due decenni dopo, mi sono reso conto di quanto fosse grande, troppo per far giocare dei bambini.

Il calcio quindi si basa su uno spazio ampio, delimitato dalle linee, e che deve essere occupato razionalmente. L’istinto, quello che ci domina quando iniziamo a giocare, è quello di andare sempre addosso al pallone creando degli sciami che si muovono per tutto il terreno. La razionalità, quella che si allena col tempo, ci insegna invece a occupare con criterio tali spazi, muovendoci nei tempi corretti, per correre meglio, non di meno, e per rendere più produttiva la fase in cui abbiamo il pallone e più sicura la fase in cui non lo abbiamo.

Occupare gli spazi in maniera razionale è quindi sempre più l’essenza del calcio. Una ragione geometrica, logica, che non a caso si sviluppa principalmente in Olanda, patria di chi deve conquistarseli gli spazi e utilizzarli in maniera produttiva (come dice WInner nel suo libro ‘Brilliant Orange’). Dal calcio praticato con successo in quell’epoca, cosa è cambiato?

Il calcio è diventato argomento di studio. Non si improvvisa. Le conoscenze che abbiamo ora non sono minimamente comparabili a quelle del passato. Abbiamo nuovi strumenti, anche tecnologici, abbiamo calciatori che non vengono più allenati come dei mezzofondisti; le caratteristiche fisiche ed atletiche degli stessi giocatori ci portano ad avere una intensità e una velocità non confrontabili con quelle di 10-15 anni fa.
La rivoluzione olandese, mischiata alla scuola spagnola, passata attraverso le idee di Sacchi, ha dato il via al calcio contemporaneo. Occupare gli spazi razionalmente, quindi, coi tempi giusti, con una intensità e una velocità incredibili. Come allenare tutto questo?

4vs3. Da questa base ci si può divertire.


Coi rondos in primis, che non sono dei semplici torelli (il classico cazzeggio prima di una partita o di un allenamento), ma delle esercitazioni di possesso palla in campo ridotto per migliorare la velocità della circolazione della palla, la pulizia dei passaggi e del primo controllo, l’orientamento del corpo, gli smarcamenti per offrire una linea di passaggio, l’aggressione sul portatore di palla e il lavoro di oscuramento delle stesse linee di passaggio, l’immediata riaggressione una volta perso il pallone.

Spesso si utilizzano campetti con forme geometriche diverse rispetto al classico rettangolo – a me piaceva lavorare su dei rombi – per esercitare l’abilità dei passaggi in diagonale, fondamentale per trovare l’uomo libero e far progredire quindi l’azione. Il rombo non è altro che un doppio triangolo, e il triangolo è alla base del calcio. Il possessore del pallone deve avere la possibilità di far sviluppare il gioco con almeno due compagni scaglionati e non sovrapposti per formare appunto questa figura. Così si può occupare razionalmente lo spazio per offrire più linee di passaggio a chi ha il pallone tra i piedi.


Dai rondò si passa ai giochi di posizione. Cosa sono? Non dei possessi palla, ma esercitazioni più specifiche sempre su campi di dimensione ridotte (per allenare velocità, reattività, intensità), in cui i giocatori iniziano a dover occupare delle posizione stabilite. Ci vuole sempre un compagno che offra un retropassaggio di scarico, un appoggio in verticale per superare la linea di pressione, appoggi interni in grado di dare la possibilità di girare il gioco, un appoggio esterno per permettere una giocata in ampiezza.

È con queste esercitazioni che si iniziano ad allenare i principi di gioco del calcio di posizione, ossia:

Giocatori disposti su altezze diverse, scaglionati correttamente, per offrire più linee di passaggio; offrire ampiezza per creare corridoi interni (passare la palla al centro per ottenere vantaggi in fascia); condurre palla per attrarre avversari; passare la palla per chiamare il pressing e muoversi in base alla posizione del pallone; creare superiorità numerica e posizionale dietro la linea difensiva che andrà sul pallone; creazione di continui triangoli per giocare col terzo uomo; giocatori posizionati alle spalle delle linee difensive si muovono per poter creare spazi dietro di esse smarcandosi fuori dall’angolo di visuale avversario; superiorità numerica costruita con inserimenti da dietro, facendo uscire in maniera veloce e pulita il pallone dalla difesa; creare situazioni di 1vs1 per i giocatori di maggior talento; trovarsi uniti e compatti nel momento in cui si perde il pallone per pressare subito. Tutto questo si allena nei giochi di posizione.

Arriviamo così alla immagine che ho utilizzato nel mio precedente articolo. Perché un campo disegnato in quella maniera?

Per dare dei riferimenti visivi, precisi, ai giocatori. Qualsiasi uomo quando riesce a comprendere, metabolizzare e interiorizzare quello che gli si chiede di fare, lo svolge poi con maggiore naturalezza, senza pensarci, con l’intelligenza di leggere le situazioni di gioco che si creano. Restando valido tutto quello che si è detto sopra, un campo diviso per fasce verticali e orizzontali viene utilizzato in maniera prescrittiva per abituare i giocatori a muoversi nello spazio e coi tempi giusti nel campo regolare.

Guardiola, che ha popolarizzato questa suddivisione, taglia il campo per 5 fasce verticali (si delimitano le due fasce verticali, i mezzi spazi – quei corridoi appunto tra fasce e centro – e la zona centrale) e 3 orizzontali, oltre alla propria area (la costruzione nella prima fascia a ridosso della propria area, lo sviluppo nella seconda, la rifinitura e finalizzazione nella terza) per abituare e far ragionare i propri giocatori a come, dove e quando muoversi in relazione alla posizione del pallone.

Proprio per occupare gli spazi nella maniera più razionale possibile, si vorrebbe avere non più di 2 giocatori per fascia verticale; se un giocatore invade un corridoio altrui, il compagno deve uscire, leggendone il movimento. Per questo, come afferma lo stesso Guardiola, che piaccia o non piaccia è tra gli allenatori che hanno portato il calcio contemporaneo a essere quello che attualmente risulta essere praticato perché efficace, “la cosa fondamentale è che l’ala e il terzino non siano mai nello stesso corridoio di gioco.

In possesso, l’ideale è avere il difensore centrale ampio in fascia, il terzino dentro al campo e l’ala larga in fascia”. L’allenatore catalano si riferisce a un 4-3-3 di partenza, ma questi principi sono gli stessi che dovrebbero essere alla base della Juventus di Pirlo. Il calcio di posizione nasce da una osservazione banale, quindi. Lo strumento è il pallone, si gioca dentro un rettangolo. Bisogna quindi saper muovere il pallone e sapersi muovere sulla base della sua posizione, cercare superiorità per trovare un uomo libero e poter avanzare lungo il campo. Come spesso succede, le soluzioni sono davanti agli occhi, ma sono troppo semplici per essere sperimentate. A differenza di quanto si creda, a mio avviso, è in precedenza che ci si complicava la vita, mentre oggi si vuole giocare a calcio semplice e razionale nella sua essenzialità.

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