Cosa ha detto Andrea Agnelli sulla Champions League?

Hanno fatto discutere le parole pronunciate dal presidente Andrea Agnelli nel suo intervento alla conferenza FT Business of Football Summit, ma in molti hanno banalizzato la questione. Agnelli ha parlato da Presidente dell’ECA, e le questioni esposte sono meno univoche di quanto si sia pensato in un primo momento.


“Oggi ci sono posizioni dominanti, dei grandi mercati e delle grandi leghe. Le leghe minori hanno meno possibilità di lottare. Magari si può mantenere il proprio livello internazionale con una determinata posizione minima in classifica, ci sono molti modi. Si può discutere sul fatto che solo perché sei in un grande Paese devi avere accesso automatico alle competizioni. Ho grande rispetto per quello che sta facendo l’Atalanta, ma senza storia internazionale e con una grande prestazione sportiva ha avuto accesso diretto alla massima competizione europea per club. È giusto o no?”

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Che poi, i meriti sportivi e gestionali dell’Atalanta non li discute nessuno

L’attenzione si è concentrata soprattutto sul passaggio che cita l’Atalanta e su quella che sembra una domanda retorica con una risposta negativa. Soprattutto alla luce di quanto ha poi detto a proposito della Roma:

“Poi penso alla Roma, che ha contribuito negli ultimi anni a mantenere il ranking dell’Italia, ha avuto una brutta stagione ed è fuori, con quello che ne consegue a livello economico. Bisogna anche proteggere gli investimenti e i costi”.

Quanto vale oggi la Champions League

Il discorso del presidente juventino non è certamente mirato contro l’Atalanta, e guarda oltre. Le sue parole puntano a ribadire l’esigenza di rendere la UEFA Champions League più redditizia sul piano economico. Per l’UEFA stessa e ovviamente per i club. E come assicurarsi che la UCL offra premi sempre più succulenti per i club? Occorre aumentare i ricavi commerciali delle competizioni UEFA (quindi anche Europa League e Supercoppa Europea), che per la stagione 2019-20 sono stimati (lordi) sui 3,25 miliardi di euro. Di questi, 300 milioni servono a coprire i costi, 228 vanno in premi di solidarietà. Ciò che resta, ovvero 2,73 miliardi, viene distribuito come segue: una minima parte (6,5%) serve per finanziare progetti di sviluppo sul calcio europeo, il resto, cioè 2,55 miliardi (93,5%) va ai club sotto forma di premi. Circa 500 milioni vanno ai premi di Europa League e Supercoppa, mentre 2,04 miliardi vanno alle squadre che partecipano alla Champions.

Una Lega aperta

I regolamenti sull’accesso all’attuale UEFA Champions League premiano il risultato sportivo di una stagione in ambito nazionale. Vincendo, o piazzandosi tra le prime dei campionati domestici, una squadra può accedere alla Champions League successiva. La Champions League quindi è una lega aperta: potenzialmente, ogni anno potrebbero parteciparvi 32 squadre diverse. Questo nella pratica non accade e ogni anno troviamo le big ai nastri di partenza.

Ma anche questo è vero fino a un certo punto: alcune big non ci sono. Anno dopo anno, qualcuna resta fuori. La Juventus post-Calciopoli lo sa bene, ma è capitato a anche all’Inter post-Triplete ed è tutt’ora così per il Milan, che non gioca in Champions da 6 anni e mezzo. Basta un’annata storta, quindi anche le big restano fuori. Non solo. Come dice Agnelli, stare fuori un anno ha enormi costi. In questo senso, l’attuale sistema non protegge gli investimenti fatti per accedere alla competizione.

Non solo: mancare la Champions anche solo per un anno può togliere liquidità importanti che possono servire per finanziare il calciomercato e poter acquisire giocatori di prima fascia, anche sul piano mediatico. Al contrario, senza Europa i grandi calciatori vanno venduti. Senza i proventi della Champions è difficile restare a galla e competere con le corazzate che in Champions ci vanno (e vincono). Quindi, saltare un anno può essere estremamente sanguinoso sul piano economico e se non si è una squadra capace di fare in ogni caso grandi ricavi – pensiamo al Manchester United e all’Arsenal – può essere poi molto difficoltoso tornare in sella. Questo è un problema molto presente per il calcio italiano, tanto che Agnelli cita proprio la Roma, che a causa dei mancati introiti derivanti dalla Champions avrà un bilancio in fortissima perdita.

La Champions ha bisogno delle big

Le squadre hanno bisogno della Champions League, ma è vero anche il contrario. Cioè, che la UEFA ha bisogno delle big e soprattutto dei loro bacini di utenza. Una Champions League che non può annoverare tra le sue fila la potenza di fuoco commerciale di Manchester United e Arsenal, ma anche del Milan, che secondo una ricerca del 2017 è la squadra italiana più tifata nel mondo con 47 milioni di sostenitori, è una Champions League più debole. Anche perché, a quanto sembra, i tifosi di queste squadre non tendono ad appassionarsi ad altre squadre, ma semplicemente non seguono una competizione che non vede i propri beniamini in campo. Di conseguenza, questo rende la Champions più povera.

Un altro problema della Champions League non è legato solo al rischio che le big sbaglino una stagione e non si qualifichino, ma anche che possano uscire nelle fasi iniziali della competizione, o che l’urna non crei un menu sempre commercialmente appetibile. È altrettanto vero, però, che immaginare qualificazioni d’ufficio solo in nome dello status “storico” potrebbe esporre le ex-grandi squadre a brutti risultati già a partire da preliminari e gironi. Questo per dire che l’accesso per meriti sportivi – al netto di qualche colpo di fortuna – tende comunque a creare una competizione tutto sommato equilibrata e non è certo un criterio da archiviare a cuor leggero.

Ok, ma come distinguere “una big”?

Anche perché poi si pone un problema, diciamo così, filosofico. Quale squadra è una big? Questa è una domanda nient’affatto banale. Se il discrimine per entrare in UCL è la storia, o quello che suole essere definito “il blasone” europeo, allora il numero delle big inizia a restringersi tanto, roba da lasciar fuori attuali corazzate come il Manchester City (che a livello internazionale ha in bacheca “solo” una Coppa delle Coppe). Ma chiaramente il City una big lo è, in virtù dei recenti titoli nazionali vinti – e vincere la Premier quattro volte negli ultimi 8 anni non è il “lampo”, unico e forse irripetibile, del Leicester – e di una rosa che annovera importanti big mondiali (con annessi followers sui social e magliette vendute in giro per il mondo) e quello che per molti è il miglior allenatore del mondo, Pep Guardiola. Quindi lo status di big pare essere incarnato non tanto dal blasone in sé e per sé, ma dalla capacità di una squadra di stare ai piani alti con continuità nel suo torneo nazionale e dallo schierare top player internazionali.

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Calciatori big, allenatore big, budget big, per una squadra che big non è?

Invece, detto in altri termini, le big sono le squadre che fatturano di più. E fatturano di più perché hanno larghi bacini di utenza. Anche perché big lo si diventa (soprattutto) a suon di milioni: il Psg degli emiri oggi schiera Neymar e Mbappé; detto del City, ma pure il Chelsea a suo tempo è diventato una big grazie ai rubli di Abramovich più che al blasone europeo storico o a una attenta programmazione. Non a caso, Psg, City, Chelsea – con Liverpool e Tottenham – sono tra le squadre che fatturano di più in Europa dopo Real, Barca, United e Bayern.

La grande programmazione dell’Atalanta

E arriviamo all’Atalanta, squadra che è arrivata in Champions di certo non solo grazie a una stagione riuscita. La gestione del presidente Antonio Percassi ha portato una squadra che per molti anni era tra le tante a fare su e giù tra serie A e serie B a essere una squadra ammirata per il suo gioco e anche per i suoi risultati. L’ultima retrocessione dei bergamaschi risale al 2009-10. Immediata risalita, e poi è sempre stata A dal 2011-12 a oggi. Nel 2016-17 arriva quarta e si qualifica all’Europa League, dove l’anno dopo arriva fino ai sedicesimi, eliminata anche per via di molta sfortuna dal Borussia Dortmund e chiude al settimo posto in A. Poi è storia recente: terza in A nell’ultimo torneo, finalista di Coppa Italia ed eliminata ai play-off di Europa League. Poi la cavalcata in Champions: esordio shock, poi qualificazione storica e andata degli ottavi vinta 4-1 sul Valencia.

Non solo: l’Atalanta è un modello per quello che riguarda il calcio giovanile. La primavera degli orobici è campione d’Italia in carica e tra le sue fila sono cresciuti giocatori di grande livello. In pochi mesi ha rifatto lo stadio, la cui proprietà è stata trasferita dal Comune di Bergamo a una società collegata con Atalanta Bergamasca Calcio S.p.A. Il Responsabile Area Tecnica Giovanni Sartori è universalmente riconosciuto come uno dei migliori dirigenti sportivi italiani, capace di individuare e acquisire giovani calciatori valorizzati e, in alcuni casi, rivenduti a prezzi importanti (come Kulusevski, ma l’elenco è lungo). Non sarà una big, non avrà un bacino di utenza come quello delle big e non schiererà – sulla carta – dei divi con milioni di fan sui social ma, cionondimeno, l’Atalanta è arrivata in Champions dopo un grande lavoro di programmazione, in campo e fuori, con dirigenti di prim’ordine. Sì, l’Atalanta merita senza dubbio di stare in Champions League.

Una Champions più esclusiva: come?

Agnelli porta probabilmente sul tavolo un discorso più ampio: non tanto se la singola squadra possa o no entrare in una lega aperta, quanto che tipo di lega debba essere la Champions. Da quello che emerge dalle parole di Agnelli, la Champions non dovrebbe essere una lega aperta, o comunque non così aperta. Una Champions capace di non disperdere squadre che sbagliano una stagione o di incamerare squadre che, per circostanze fortuite più che per programmazione, una stagione la azzeccano – ma questo non è il caso dell’Atalanta. Rafforzare le big è un piano che la UEFA ha già iniziato a rendere concreto con la nuova distribuzione dei premi su base storica – il ranking decennale – che premia le squadre più forti a scapito delle più deboli.

È altrettanto vero che la base decennale è lunga, ma non eterna, e se una big inizia a mancare, anno dopo anno, la qualificazione, ben presto sprofonderà anche in questa classifica. Probabilmente questo tipo di correttivo pro-big è considerato un brodino caldo dalle big stesse, che vorrebbero forse qualcosa di più: le più agguerrite vorrebbero forse una superlega chiusa, altre almeno licenze pluriennali e ammissioni ben più selezionate anche sulla base di una valutazione delle infrastrutture e del bacino d’utenza (come avviene nell’Eurolega di basket, che è però, è bene specificare, è una lega semichiusa).

Superlega o no, la UEFA cercherà probabilmente di trovare altri correttivi che rendano la Champions un po’ più esclusiva, cioè un po’ più premiante per le forti e le habitué, come accaduto con l’introduzione del ranking decennale. Ad esempio, per il 2024 si parla anche di una Champions sempre a 32 squadre ma con 4 gironi da 8 squadre e con una serie di “premi” qualificazione per l’edizione successiva. Tra questi, potrebbe esserci anche l’allargamento delle squadre che si qualificano di diritto: un’ipotesi potrebbe essere quella che assegna dei posti non solo in base ai piazzamenti nelle leghe domestiche, ma anche nella Champions stessa. Per esempio, una squadra che raggiunge le semifinali (la Roma, ma anche un’altra squadra citata da Agnelli nel suo discorso, cioè l’Ajax) potrebbe legittimamente avere il diritto di vedersi ammessa di diritto nella Champions successiva.

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