Una Juventus fuori ruolo

I problemi della Juventus sono, ad oggi, tanti. Eppure, c’è un trend che mi è balzato velocemente agli occhi, che a questo punto della stagione è difficile non mettere a fuoco. Oggi molti giocatori della Juventus giocano fuori ruolo

Banalmente, a molti componenti della rosa vengono chieste mansioni che non sono in grado di svolgere – o perché non opportunamente guidati, o perché ben al di là delle loro caratteristiche (oppure, perché no, entrambe le cose). Per evitare equivoci: il concetto di giocatore “fuori ruolo” non è chiaramente limitato alla posizione in campo, quanto soprattutto al ventaglio di compiti richiesti: collimano con le caratteristiche? Sto creando tutte le condizioni necessarie affinché il mio calciatore riesca a svolgere questi compiti?

Da quando è tornato sulla panchina della Juventus, Massimiliano Allegri ha adottato spesso lo stesso modulo ed approccio alle gare. Al netto di qualche saltuario esperimento (il 4-3-1-2 con lo Spezia, su tutti), ha proposto un 3-5-1-1 in fase di possesso, che si disponeva poi diligentemente verso un 4-4-2 dalle linee molto vicine e strette senza il pallone; soprattutto, Allegri si è prefisso l’idea di difendere in campo corto ed attaccare in campo largo, assecondandola con un baricentro spesso bassissimo. Sul sito si è già discusso di questa conformazione, gli accorgimenti e le difficoltà incontrate a livello organico e sistemico, e non saranno dunque oggetto di analisi in questa mia riflessione. Piuttosto, credo sia utile soffermarsi sulle difficoltà individuali di taluni giocatori e di come, a mio avviso, questo sistema di gioco li stia mettendo in ulteriore difficoltà. 

Il primo giocatore che salta in mente quando parliamo di difficoltà tattiche in questo primo scorcio di stagione è probabilmente Adrien Rabiot. Allegri sembra aver adottato la tecnica del bastone e della carota nelle dichiarazioni pubbliche, ma il centrocampista francese ha fin qui disputato partite molto confuse, attirandosi le critiche di tifosi e addetti ai lavori.

A Rabiot è stato deputato il ruolo di mezz’ala chiamata ad allargarsi in fascia senza il pallone, ultima pedina a sinistra di una linea a quattro. Quando la squadra verte in fase di costruzione, Rabiot doveva spesso scendere ad aiutare il primo possesso; quando questo era consolidato, gli è stato chiesto di salire e tenere occupata la linea difensiva avversaria, “scappando” in avanti: Allegri non ha mai fatto mistero di chiedergli anche diversi gol (gliene ha chiesti 10, per la precisione). Senza il pallone, invece, a seconda dell’altezza dell’azione e della disposizione degli avversari, si occupa spesso di tenere sott’occhio la prima ampiezza avversaria, scongiurando le ricezioni e/o le conduzioni dell’esterno basso, oppure addirittura di un primo pressing sui centrali. 

In questo ruolo, a suo modo delicato perché perno della rotazione, Rabiot è stato ritenuto fin qui largamente insufficiente (tanto da aver perso il posto in favore di Bernardeschi, che in fascia è più a suo agio). Tuttavia, credo sia facile vedere come questa funzione non collimi un granché con le doti dell’ex parigino. Nell’articolo di presentazione al suo arrivo a Torino, Michele Tossani definiva Rabiot un relayeur, ossia un centrocampista di manovra ma in grado di staccarsi dalla linea di palleggio e di andare a giocare nella metà campo avversaria (da non confondere comunque con gli incursori, tipo McKennie). Le doti atletiche del francese gli permettono di strappar palla al piede per far progredire l’azione, ma una scarsa rapidità sul breve, unita ad una pessima capacità di smarcamento e a poche doti nelle letture senza palla, gli precludono responsabilità cosi grandi negli ultimi 30 metri. Anche la richiesta di 10 gol appare tra il fuori luogo e la sparata: nella sua stagione migliore, il 2015-2016, Rabiot ne ha iscritti appena sei. 

Oltretutto, benché anche Deschamps l’abbia recentemente provato da esterno a centrocampo, Rabiot non ha la scaltrezza per giocare in fascia in non possesso, rendendosi spesso protagonista di azioni difensive rivedibili che favoriscono gli avversari più del dovuto. Insomma, forse Rabiot non è il giocatore che Allegri gli chiede di essere e, se usiamo il ruolo richiestogli come parametro di giudizio, il suo rendimento non può che essere largamente insufficiente. 

Un simile equivoco tattico è stato cucito addosso al neo-acquisto Manuel Locatelli. Un acquisto importante, visto che in tempi di vacche magre la Juventus ha puntato quasi 40 milioni su di lui (pur dilazionati). Locatelli si è imposto come il miglior passatore dell’ultima Serie A ed è stato chiamato al compito importantissimo di elevare la qualità del centrocampo bianconero – spesso reputato, secondo me a ragione, il punto debole della squadra.

Da quando è arrivato, l’ex pretoriano di De Zerbi è stato schierato al centro del centrocampo a tre, nel ruolo di regista: una scelta apparentemente in linea con le caratteristiche del giocatore. Eppure, Locatelli regista non ha mai veramente giocato: nel Milan era una mezz’ala, nel Sassuolo giocava a due (con accanto un palleggiatore come Maxime Lopez, molto abile nel corto, oppure con Obiang, un centrocampista più bloccato che gli consentiva di giocare più sulla trequarti). Se dovessi tirare ad indovinare, direi che il nazionale italiano è stato schierato in quella posizione per la sua innata capacità di andare in verticale. Tuttavia, in una squadra dove i centrocampisti fanno gli attaccanti, di rimando sono gli attaccanti a dover fare i centrocampisti: spesso gli unici appoggi vicini per Locatelli li offre Dybala. 

Senza compagni vicino, i compiti di Locatelli col pallone tra i piedi si riducono drasticamente a degli scarichi sui difensori, e a dei cambi campo sugli esterni (indifferentemente a destra o a sinistra) con lo scopo di muovere la struttura avversaria il più velocemente possibile. Un compito assolutamente nelle corde dell’ex Sassuolo, ma che riduce un cervello sopraffino all’esecuzione meccanica di giocate predefinite. 

E in effetti Locatelli è passato dai 76 passaggi completati p90’ dell’anno scorso, agli appena 46 di quest’anno. 

Capitolo difensori. Per quanto Bonucci e Chiellini siano a proprio agio in qualsiasi tipo di contesto (dalla nazionale di Mancini, alle Juventus di Conte, Sarri e chiaramente Allegri), Matthijs de Ligt sta soffrendo forse più del dovuto un ruolo in cui non sembra del tutto a suo agio: quello di centrale sinistro. Anche Maurizio Sarri, pur in un contesto tecnico e tattico molto diverso, aveva inizialmente schierato l’olandese a sinistra, per lasciare Bonucci libero sul piede forte: l’allenatore napoletano è tornato ben presto sui suoi passi, preferendo mettere l’ex Ajax sul centrodestra per massimizzarne i punti di forza. Massimiliano Allegri, al contrario, sta insistendo ad avere Bonucci in quella casella. La scelta è probabilmente dettata dall’idea di avere Bonucci che vede più campo, ma l’azzurro ha spesso dimostrato di poter giocare anche sul centrosinistra (proprio con Sarri) con ugual profitto. 

Per un difensore – come d’altra parte per qualsiasi giocatore – giocare nella metà sinistra o destra del campo cambia molto: cambia la postura sull’avversario, cambia il senso del giro attorno all’uomo negli anticipi, cambia la gamba da mettere sul pallone, e cambia “quanto campo vede” col pallone tra i piedi. È questo, credo, il cambiamento più significativo per de Ligt, che essendo destro di piede e guardando meno campo deve o prendere un tempo di gioco in più per ruotare il busto verso il centro del campo, o avere una sola giocata a disposizione (ossia lo scarico verso l’esterno). Per di più, tolta la breve parentesi con Sarri, de Ligt non ha mai veramente giocato a sinistra, e anzi nell’Ajax aveva un mancino come Blind al proprio fianco (oppure giocava al centro di una difesa a tre); anche in nazionale Oranje, si trova a giocare alla destra di van Dijk.

Oltretutto, nelle partite in cui la Juventus ostenta ancor di più la difesa a tre con Danilo braccetto a destra, de Ligt viene spinto ancor di più verso l’esterno, riducendo drasticamente i suoi punti di forza con il pallone, e mettendolo in condizione di non far valere come potrebbe l’esuberanza fisica negli anticipi sulle punte avversarie in transizione e in marcatura preventiva. Forse è anche questo il motivo per cui Allegri gli sta spesso preferendo capitan Chiellini nelle gare più delicate: perché le sue caratteristiche sono più vicine a quelle richieste al centrale di sinistra – che de Ligt non è (andrebbe intavolato un discorso sulla crescita di de Ligt? Probabilmente si, ma non è questo il luogo).

L’assunto che Allegri stia forzando dei ruoli a giocatori che non sanno (ancora) farli è abbastanza lampante nell’idea di adattare Federico Chiesa a seconda punta – anzi, a parole l’ha addirittura definito “centravanti”. Al di là del fatto di averlo sballottato a destra, in panchina, a sinistra, e in attacco, la sistematicità con cui l’ha schierato nel duo di punte (Empoli, Torino, Roma, Chelsea) lascia pochi spazi all’interpretazione (attaccante o no) o alle contingenze (emergenza infortuni o no): Allegri lo vede anche in quel ruolo.

Le caratteristiche di Chiesa sono chiare a tutti: un giocatore di grandi strappi, un “generatore di occasioni” (cit) che porta grandi dividendi quando può puntare l’avversario o, meglio ancora, la porta. Nel sistema di Allegri, tuttavia, le due punte si trovano spesso a dover far gioco sulla trequarti, venendo incontro la portatore: ne è esempio lampante Dybala, ma anche il Morata di quest’anno ha imparato con discreto profitto a giocare spalle alla porta – di sponda, a muro, o anche solo per provare a portar via un difensore. In questo senso, anche ad Alvaro Morata vengono chiesti compiti inusuali, cui lui sta comunque adempiendo molto bene, per quanto mi riguarda. Certo, il contraltare sta nei 4 gol e 0 assist in 14 presenze stagionali, (e 0,38 gol p90’ vs gli 0.68 dell’anno scorso) che per un attaccante abituato a segnare e poco più sono un bottino magro

Chiesa sta soffrendo in particolar modo quando schierato in quella posizione: non solo spalle alla porta è un giocatore tutto sommato nella media, ma con quei compiti gli vengono anche anestetizzati i punti di forza. Sarei un po’ meno pessimistico se l’altra punta venisse a giocargli vicino, ma sappiamo che in fase di possesso le squadre di Allegri tendono a dilatare le distanze tra i giocatori, rendendo difficili giocate da uno o due tocchi. 

Ed è un discorso che vale anche per Dejan Kuluševski. Giocatore di difficile collocazione tattica in un 3-5-2 o in un 4-4-2, Allegri ne ha delineato i confini ritenendolo un vice-Dybala (quindi grosso modo una seconda punta). Ma lui stesso si è sempre definito “un trequartista”, al massimo un esterno d’attacco. Nell’idea che i due mancini calchino anche le stesse zone di campo, questa similitudine ha portato Allegri a ritenerlo alternativo all’argentino, chiedendogli spesso gli stessi compiti: raccordo con il centrocampo, cambi campo, sponde per far risalire la squadra, gol, sporcare le linee di passaggio sulla prima costruzione avversaria.

Ma Kuluševski non ha la stessa protezione della palla di Dybala, non ha la stessa capacità di cambiare campo per l’esterno opposto, e certamente è anche meno abile nel gioco di sponda lontano dall’area avversaria. Kuluševski, come molti altri giocatori utilizzati fin qui fuori ruolo, la deve guardare la porta, non staccarsi dalla linea difensiva per venire incontro; Kuluševski è un giocatore elettrico, brillante sul lungo, e dev’essere colui che manda in porta il compagno, non un giocatore di pause. Contro l’Inter, curiosamente, Allegri ha deviato da questa sovrapposizione con Dybala e ha schierato lo svedese sulla falsariga di quanto fatto dal suo predecessore Andrea Pirlo, ossia con il preciso compito di bloccare Marcelo Brozović marcandolo a uomo. Un compito cui Kuluševski ha ottemperato con ligio dovere, ma che ha demineralizzato (visto che questo termine va di nuovo di moda) la fase offensiva. 

Un calciatore si trova ad operare in uno sport complesso, un sistema aperto in cui riceve molteplici stimoli diversi e si trova a dover prendere molteplici decisioni diverse, tutte potenzialmente decisive. Il bagaglio tecnico che un calciatore mette in campo non si basa solamente sul talento, ma è mediato anche dal sistema cognitivo – influenzato ovviamente dalle richieste dell’allenatore. Insomma, detta senza giri di parole: forse i giocatori non sono scarsi come sembrano, “ma se si giudica un pesce dalla sua capacità di arrampicarsi sugli alberi, lui passerà l’intera vita a credersi stupido” (cit). 

Quindi, conclusione?

Scrive Fabio Barcellona sull’Ultimo Uomo

Storicamente il calcio di Allegri si sviluppa in maniera induttiva. Applicando un approccio bottom-up – partendo cioè dal basso verso l’alto – il tecnico livornese è sempre partito dalle caratteristiche dei suoi giocatori per trovare e affinare le connessioni tecniche tra loro per poi costruire la squadra. È per questo parecchio sorprendente la rigidità che sta mostrando in questa stagione, visto che sia la disposizione in campo che lo sviluppo del gioco sembrano sacrificare le migliori qualità dei suoi giocatori. La rigidità del 3-5-1-1, la scelta di difendere bassi e attaccare in un campo grande, lo svuotamento del centrocampo, l’isolamento degli esterni, una circolazione bassa prudente e orientata ai cambi da gioco e alla ricerca delle punte, sono tutte idee di gioco che sembrano aver ridotto i calciatori della Juventus a semplici pedine che devono interpretare una parte in indipendentemente dalle loro qualità.

Sulle scorta delle considerazioni fatte sopra e dello stralcio riportato, mi chiedo: Allegri sta forse imponendo uno spartito che gli interpreti non sanno suonare? Un vestito non congeniale ai calciatori, che di conseguenza lo rigettano? Io rimango intimamente convinto che, se istruiti a dovere, tutti i calciatori sono in grado di svolgere le più disparate funzioni in campo: basti pensare – per prendere due esempi opposti – che De Zerbi ha insegnato il gioco di posizione a gente come Obiang, e Simeone la difesa posizionale a gente come Carrasco. Tuttavia, credo di andare sul sicuro se affermo che al momento la squadra oscilli tra il non sapere come applicare le richieste dell’allenatore e non sapere proprio cosa fare. 

In conclusoine, pensando e scrivendo questo articolo, è stato sorprendente realizzare che un uomo che ha costruito la propria immagine mediatica sul concetto di duttilità si ritrovi ad essere ad oggi l’allenatore più dogmatico ed intransigente del campionato, imponendo top-down dei pattern che i giocatori non sembrano essere in grado di eseguire.

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